SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo X (I parte)

LA CITTA' DEI ROMANTICI

b) La città di Leopardi

Esiste una città di Leopardi. Un gruppo di notazioni dello Zibaldone e dell'Epistolario, direttamente o indirettamente riguardanti l'architettura, fanno emergere con sufficiente chiarezza i connotati di questa città. E questa  città, a sua volta ci rivela un Leopardi molto critico, fin da giovanissimo, nei confronti del gusto settecentesco, anche se i legami dello scrittore con le filosofie più caratteristiche del "secolo dei lumi" in verità non s'interrompono mai. Va tuttavia tenuto presente, da quest'ultimo punto di vista, il proverbiale isolamento geopolitico (prima ancora che culturale) di Leopardi, isolamento che, per quanto riguarda il nostro tema, va pensato come particolarmente pregiudicante. 

Sappiamo della prevenzione settecentesca contro le costruzioni a mattoni nudi, e quanto essa nuoccia a certe città (Livorno, Aix en Provence), le cui case vengono imbellettate di biacche, in genere, molto precarie. Leopardi mostra di aver superato quella prevenzione già in una nota del 1817:

«Presso noi (Italiani) non disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi ridicole imbiancate e colorite» (235).

Pochissimi scrittori del Settecento abrebbero sottoscritto un'affermazione del genere.

Del 1819 è un pensiero teorico sull'architettura in generale che inserisce Leopardi nella linea Schlegel-Hegel (per quanto riguarda, cioè, la rivisitazione d'un celebre paragone schlegeliano, che Hegel farà nell'Estetica):(236)

«La parola nella poesia ecc. non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un'impressione  sempre secondaria e meno immediata, perchè la parola, come i segni e le immagini della pittura e scultura, hanno una significazione determinata e finita. L'architettura per questo lato si accosta un poco più alla musica, ma non può avere tanto subitaneità, ed immediatezza» (237).

Del 1821 è un passo in cui Leopardi confuta direttamente, non soltanto qualsiasi estetica normativa, ma anche la definizione aprioristica di concetti quali quello di ordine e di proporzione, asserendone, invece, la relatività storico-ambientale, e giungendo fino a mettere in discussione (almeno oggettivamente) atteggiamenti quali per esempio l'"eurocentrismo"carattteristico di tutto l'illuminismo e di quello più "scientista"specialmente: 

«Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d'arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, di una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o irregolarità di simmetria ecc. ed appena che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com'esso è fatto a bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ecc. non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più quell'oggetto veruna sproporzione, come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è dunque relativa e mutabile l'idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l'assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un'altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un'altra. Dal che deriva l'errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti inostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d'ogni altro genere di essere, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente fra l'individuo ecc. » (238).

Dove fra l'altro è forse possibile leggere anche un inizio di rivalutazione, se non proprio del "gotico" in astratto, almeno della città goticizzante, della città, cioè, fatta di scorci più che di prospettive, di sorprese, più che di di-chiarazioni. Tant'è vero che un altro passo, sempre del 1821, suona così:

«E' piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov'ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco, appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell'astro luminoso ecc. A questo piacere contribuisce la varietà, l'incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll'immaginazione, riguardo a ciò che non si vede» (239).

Il non veder tutto, e l'immaginazione che, da questo, nonchè trarre svantaggio, si arricchisce: è l'ideologia della siepe dell'Infinito (poesia infatti composta fra il '19 e il '21), ed è un'ideologia praticamente opposta a quella del Settecento razionalistico - "L'immaginazione (scrive Voltaire nel 1757) (240) è una facoltà che dipende dalla memoria. Vediamo uomini, animali, giardini; queste percezioni penetrano in noi per mezzo dei sensi, la memoria le conserva e l'immaginazione le compone (...) Non avresti mai veduti, avendo la vista, o toccati, se cieco".

Ma il dialogo leopardiano con il vecchio secolo continua, e c'è un'occasione, sempre nel 1821, in cui lo scrittore parrebbe concedere parecchio all'interlocutore: 

«Come un filare d'alberi dove la vista si perde, così per la stessa ragione è piacevole una fuga di camere, o di case, cioè una strada lunghissima e dirittissima, e composta anche di case uguali, perchè allora il piacere è prodotto dall'ampiezza della sensazione; laddove se le case sono di diversa forma, altezza ecc. il piacere della varietà sminuzzando la sensazione e trattenendola sui particolari, ne distrugge la vastità» (241)

Passo settecentesco, dunque, non solo per certe coincidenze ("strada lunghissima e dirittissima", "case uguali"), ma anche per tutt'intera un'allure formale (le parole "piacevole", "piacere", "sensazione"), oltre, naturalmente, che per il rischio, piuttosto sostenuto, di riesumare di fatto la normatività appena rifiutata. Ma Leopardi si corregge immediatamente: Egli infatti prosegue:

«Quantunque anche della molteplice varietà si può fare una sensazione vasta e indefinita, quand'ella fa che l'animo non possa abbracciar tutta la sensazione delle grandi e numerose diversità che vede, sente ecc. in un medesimo tempo» (242)

Sicchè, è ormai maturo un diretto discorso sul gotico quale quello che arriverà due mesi dopo:

«L'altezza di un edifizio o di una fabbrica qualunque sì di fuori che di dentro, di un monte ecc. è piacevole sempre a vedere, tanto che si perdona in favor suo anche la sproporzione. Come in una guglia altissima e sottilissima. Anzi quella stessa sproporzione piace, perchè dà risalto all'altezza, e ne accresce l'apparenza e l'impressione e la percezione e il sentimento e il concetto. Ad uno il quale udiva che l'altezza straordinaria di un certo tempio era ripresa come sproporzionata alla grandezza ecc. sentii dire che se questo era un difetto, era un bel difetto, ed appagava e ricreava l'animo dello spettatore. La causa naturale ed intrinseca e metafisica di questi effetti l'intendi già bene» (243)

Certo, il dialogo di Leopardi con il Settecento, è ancora strettissimo, non esistono, malgrado tutto, fratture decisive fra due interlocutori, e la rivalutazione di cui sopra, avviene tuttora sulla base di discorsi di proporzione e sproporzione, di difetto e "bel" difetto, ecc. - e non è detto che il rischio, anche qui, d'una nuova normatività sia del tutto fugato. E siamo, naturalmente, piuttosto lontani anche da interpretazioni del gotico di tipo storico-culturale, come saranno quella di uno Hegel, per esempio, o, a maggior ragione, quella di un Ruskin. Ma il lavorio di Leopardi, che fra l'altro sta sviluppandosi tutto per via di libri, andava comunque segnalato.

Un anno dopo (dicembre 1822), Leopardi riesce a svellersi da Recanati e, giunto a Roma, s'imbatte nella città barocca, che è l'unica, fra le molte "città" che costituiscono Roma, che sembra colpirlo, ma niente affatto favorevolmente:

«Il materiale di Roma avrebbe un gran merito se gli uomini di qui fossero alti cinque braccia e larghi due. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro. La cupola l'ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io ero in viaggio; e l'ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce, come voi vedete di costà gli Appennini. Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Questa fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d'essere spazi che contengano uomini. Io non vedo che bellezza vi sia nel porre i pezzi degli scacchi della grandezza ordinaria sopra uno scacchiere largo e lungo quanto cotesta piazza della Madonna (oggi piazza di Spagna). Non voglio già dire che Roma mi paia disabitata; ma dico che se gli uomini avessero bisogno d'abitare così al largo, come s'abita in questi palazzi, e come si cammina in queste strade, piazze, chiese, non basterebbe il globo a contenere il genere umano» (244)

Corollari di questo, possono considerarsi tre note scritte durante il secondo soggiorno romano (1831), in cui Leopardi definisce piazza del Popolo "la mia favorita" (245), impreca ancora contro la città "che non finisce mai, con un pavimento infame, infernale, che dopo mezz'ora di cammino vi fa sentire dieci volte più stanco che quello di Firenze, di Bologna, di Milano dopo due ore" (246) e infine, cita "San Pietro, il Colosseo, il Foro e i Musei" come le cose gli dispiace di non aver potuto rivedere prima della partenza dalla città (247).

Rifugio totale, dunque, da parte dello scrittore, della magniloquenza barocca, ossia della città come rappresentazione. Tipico, fra l'altro, il sarcasmo sul gigantismo della cupola di San Pietro. Ad una interpretazione storico-culturale, l'elemento-cupola si disvela programmaticamente carico d'un simbolismo, insieme, cosmico, religioso e civile, simbolismo che può diventare sufficientemente leggibile solo ove la cupola, appunto, "si estolla in tanta altezza, che i monti intorno (alla città) paiano simili a lei" (248).

Ma Leopardi, evidentemente, non giudica ancora in termini storico-culturali, sibbene solo estetici. Egli è ancora lontano, insomma, per esempio da un Hawthorne, il cui romanticismo, quantant'anni dopo, ci darà una pagina molto calda sul "senso" complessivo di quello svettare della cupola di San Pietro, appunto, sull'interno costruito romano (249)

Ora però, se tutto questo indubbiamente continua a legare Leopardi al Settecento, è altrettanto indubbio che il rifiuto del gigantismo e della rappresentatività barocchi, non può non coinvolgere, oggettivamente, quanto di essi sussiste nel gusto urbano del Settecento razionalistico e illuministico: non a caso Leopardi sottolinea ripetutamente la negatività di quelle strade lunghissime e larghissime, e di quelle "fabbriche" immense, che non dovevano differire troppo da certi modelli cui quel Settecento sistematicamente pensava quando progettava ristrutturazioni "moderne" della città. In quegli stessi anni Trenta dell'Ottocento, del resto, lo stesso Giuseppe Gioacchino Belli attribuisce un qualche residuo piacere per le forme più vistose del gigantismo barocco di Roma, ormai solo al "popolano" arretrato che "dice" i suoi sonetti. (250)


(235) GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, a cura di SERGIO e RAFFAELLA SOLMI, Torino, Einaudi, 1977, vol. I, p. 11.

(236) GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Estetica, cit., p. 743: "Friedrich von Schlegel ha definito l'architettura una musica congelata; e in effetti entrambe le arti riposano su un'armonia di rapporti che sono riconducibili a numeri e perciò possono facilmente essere colti nei loro tratti fondamentali".

(237) GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit., vol. I, pp.47-48

(238) Ibid. vol. II p. 280. Ricordiamo che VOLTAIRE, per esempio (Enciclopedia, voce "Gusto", oggi in Scritti filosofici, a cura di PAOLO SERENI, Bari, Laterza, 1972, vol. I, p. 352), sosteneva, nel 1756, che "gli Asiatici non hanno mai avuto opere ben fatte in quasi nessun genere artistico, e il gusto è stato il retaggio esclusivo di alcuni popoli dell'Europa".

(239) GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit., vol. II, p. 376.

(240) VOLTAIRE, Enciclopedia, voce "Immaginazione", oggi in Scritti filosofici, cit., vol. I, p. 353.

(241) GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit., vol. II, p. 387.

(242) Ibid.

(243) Ibid. vol. III, p. 447.

(244) GIACOMO LEOPARDI, lettera alla sorella Paolina del 3 dicembre 1822, Epistolario, raccolto e ordinato da PROSPERO VIANI, Firenze, Le Monnier, 1856, Vol. I, pp. 258-259. 

(245) Lettera a Paolina del 12 dicembre 1831, Epistolario, cit., vol. II, p. 174.

(246) Lettera al padre del 22 dicembre 1831, ibid. vol. II, p. 176.

(247) Lettera a Paolina del 16 marzo 1832, ibd. vol. II, p. 184.

(248) Sono parole del VASARI relative a Santa Maria del Fiore, riportate da GIULIO CARLO ARGAN, Il significato della cupola, oggi in Storia dell'arte come storia della città, cit., pp. 103 e ss.

(249) "Alzando gli occhi, Hilda e il suo compagno guardarono s occidente e videro, oltre il Tevere invisibile, Castel Sant'Angelo, quell'immensa tomba d'un imperatore pagano con un arcangelo sulla cima.

(250) Vedi per esempio i sonetti Er funtanone de Piazza Navona (op. cit., vol. I, p. 61), i due su Campo Vaccino (ibid. p. 50-52), e soprattutto quello intitolato La strada cuperta (ibid, p. 532 - in cui si decanta la vastità del Palazzo del Quirinale), tutti degli anni 1830-1831.


Theorèin - Settembre 2007